Elenco dei Poeti italiani

Carlo Alberto Sitta: Atto di nascita [In STEVE 1, aprile 1981, pp. 30-1]
Giuliano Mesa: Before morning you shall be here [in STEVE 2, 1982, pp. 13-15]
Roberto Sanesi: da “Paolo Diacono” [in STEVE 2, 1982, p. 30]
Nino Majellaro: Mitologie dell’albero [in Steve 3, novembre 1983, pp. 11-15]
Mario Moroni: In apertura della storia [in Steve 4, gennaio 1985, pp. 48-9]
Bianca Garavelli: da “Lettere dai mesi finiti” [in Steve 5, febbraio 1986, pp. 36-9]
Elio Grasso: L’ultimo giorno possibile [in STEVE 7, aprile 1988, pp. 57-60]
Vincenzo Guarracino: Oltre Scilla [in STEVE 7, aprile 1988, pp. 55-6]
Maria Luisa Vezzali: da “Eleusi marina” [in STEVE 8, maggio 1989, pp. 53-5]
Lucetta Frisa: da “Goyescas” [in STEVE 10, aprile 1991, pp. 22-32]
Vivian Lamarque: Altre poesie dando del lei [in STEVE 10, aprile 1991, p. 36]
Silvio Ramat: Inchiostri [in STEVE 11, giugno 1992, p. 41]
Alberto Cappi: Poesie [in STEVE 12, febbraio 1994, p. 57]
Walter Loddi: da “Tempi perduti e tipologie” [in STEVE 12, febbraio 1994, p. 72]
Cesare Greppi: Omaggio [in STEVE 12, febbraio 1994, p. 76]
Miria Baccolini: Solo il tuo postumo fiore [in STEVE 13, giugno 1995, p. 17]
Mariella Bettarini: La chiamata [in STEVE 13, giugno 1995, p. 23]
Giovanna Sicari: Ho bisogno di questo dolore [in STEVE 13, giugno 1995, p. 29]
Maria Lia Lotti: Il Principe [in STEVE 14, novembre 1996, p. 79]
Franco Beltrametti: da “OWT” [in STEVE 15, estate 1997, p. 52]
Cesare Viviani: Poesie [in STEVE 15, estate 1997, p. 84]
Giulia Niccolai: da “Metrò” [in STEVE 15, estate 1997, p. 99]

 

GIULIA NICCOLAI
da “Metrò”

[…]

Il Metrò è anche la cartina di tornasole della propria
pratica spirituale: della comprensione/compassione
che si riescono ad avere per gli altri.

*

Diversi discepoli e discepole del Lama
mi raccontano i loro sogni perché li aiuti
a interpretarli. Col tempo, statisticamente,
ho potuto constatare come molti di questi sogni
siano ambientati nel Metrò. La discesa,
la discesa in se stessi e il viaggio interiore.

*

Con indosso l’abito della monaca buddista
scendo la prima rampa di scale
della fermata di Conciliazione.
Un mendicante che suona musica classica
su un giradischi, al pianerottolo, prima
dei gradini successivi, mi accoglie con sorpresa:
“Ueilà, la figlia del Gurù!” dice, con l’accento
sull’ultima “u”. (Maglietta e berretto a visiera
da ciclista, occhi azzurri, divertiti e ironici,
il braccio destro è un moncherino all’altezza del gomito.
La mia stessa età). E mentre gli passo davanti
e imbocco il lungo corridoio deserto:
“L’amore è sempre l’amore, stella”, mi grida dietro felice,
“ma quelli non lo sanno!”
Possibile che abbia realizzato l’amore illimitato:
“possano tutti gli esseri ottenere
la straordinaria felicità degli esseri superiori”?

(giugno 1997)

[in STEVE 15, estate 1997, p. 99]

 

 

CESARE VIVIANI
Due poesie

I

Quella minima traccia rimasta,
ora ricoperta dai segni dei nuovi nati,
sparita, e anche le nuove destinate
a sparire in tempi brevi, la nuova vita
non risparmiando segni anteriori.

II

Arriva il cielo
fino alla superficie della terra,
e restano avvolti gli esseri
in questo universale elemento
di inerzie e transiti, fughe
e ricolmi di energia, non c’è
un’aria quieta o dedicata alla vita,
è tutto sostanza, intraducibile sospensione,
eterea travolgente continuità celeste.
Spostamento del vuoto,
infinito moto.

[in STEVE 15, estate 1997, p. 84]

 

 

FRANCO BELTRAMETTI
da “OWT”

TESTIMONE UNO

quando ho sentito formichiere–cane
latrare su per la cappa del camino
sono salito per la lingua rosa che
mi ha come aspirato in alto dove
tutto sembra minuscolo irrilevante
poi la quota si è fatta vertiginosa
e nella comoda rosanera nuvola ho assistito
a spettacoli interessanti c’era un filmato
attraverso il buco della serratura della
porta futuro passato – il passato qua e là
cancellato, il futuro batuffoli di nebbia
tra i tralicci rossi di quel celebre ponte
di San Francisco – la chiave del tutto si chiama
presente, c’era altra gente animali e piante
dal sorriso staccato, il cibo era eccellente
il trattamento di prima classe
quanto al ritorno è stato inaspettato
da quel momento tutto sembra più concreto
più vivaci i colori più esatti i suoni
più trasparente l’aria, e tutto sommato…

TESTIMONE DUE

leggevo il solito giornale
qualcosa mi ha afferrato e
per l’aria succhiato, in
quattro e quattrotto mi sono trovato
nel facsimile della casa che avevo lasciato
anche il giornale era lo stesso soltanto che
le notizie erano alla rovescia è stata una
lettura affascinante, la fantasia
tira certi scherzi…

[in STEVE 15, estate 1997, p. 52]

 

 

MARIA LIA LOTTI
Il Principe
(da: Tema delle maree)

Tornare alle parole dopo il
tempo. Piove dolcemente, neve
delicata sulla siepe. Sei tu
l’antico approdo delle
baie e si alza l’alta marea
delle tue mani gentili sulle onde
e sulle danzatrici, e Ilaria
e l’Annunziata e le porte
di bronzo dove ancora
germina una pioggia
tra le labbra. È anche
tutta questa gioia senza
scuse e le cose usuali che
ruotano senza Firenze.
Ci sono vite e
vite in questa lieve pioggia
oltre l’amore. Oh non ci
sono tempeste e sale ampia
una marea su cui può
tramontare il sole oro. È una
gioia che basta al presente, muto
ampio di spirali dove
quello che c’è è avere amato.

[in STEVE 14, novembre 1996, p. 79]

 

 

GIOVANNA SICARI
Ho bisogno di questo dolore per raccontarlo

Sonno rifugio giorno dopo non passa
aspettando baci e sere nate senza quattrini
così si mangia senza onori di guerre lontane.
Gli effetti erano immobili, oggetti senza
copertura, corpi di agonia nelle maree.
Solo il padre nella casa si muove
con piedi ingombranti, chiude abiti nella borsa.

Io che combatto sempre con la morte profeta
metto lacci e marcio e naufrago in cima
alla mia disobbedienza.
Io che conosco la morte non so altro dolore
di te che esci, non ci sei, ubriaco vago assente.
Ho bisogno di questo dolore per raccontartelo
per dire la mia irresponsabile profezia
tu che assomigli a mio padre ­ dagli dagli un bacio
vero che lui se lo possa ricordare.

[in STEVE 13, giugno 1995, p. 29]

 

 

MARIELLA BETTARINI
La chiamata

quel brontolio di tuono ­ lo sgranarsi
d’una sua interna voce ­ quel manovrare accordi
di buia musica ­ pedali pedalati da chi
quel tremare di
tutti i vetri ­ il tintinno ed il suono (la discordanza):
è questa la forma che t’appella: niente di più profondo
ti s’accosterà di questo sordo vibrare ­ di questo infausto
aderire alla morte ­ congiungersi col tuo contrario –
dismettere i panni del “Ridestato” per indossare quelli
del defunto

la chiamata è pura Notte ­ accade
nella notte ­ sopraggiunge la notte ­ è vieto soprassalto
delle notti
parlata solo da sé‚ ­ nutrita
di tenebre ­ non conosce la scintillazione
colpisce
e va ­ spezza e fugge ­ disossa e dilegua

rimane la Cosa –
l’orma d’una voce ­ la memoria pallida
d’un pigolare che ti riguarda ­ d’un brusio
ch’ora è quello ­ ch’ora più non lo è
d’un Detto
rientrato tutto nei suoi silenzi

arpeggia così (oscuro)
quel suono ­ quella musica che non sai
(più rumore che musica) ch’è addentrarsi nel bosco
del più perfetto silenzio e della più perfetta
delle solitudini

[in Steve 13, giugno 1995, p. 23] 

 

 

MIRIAM BACCOLINI
Solo il tuo postumo fiore

I miei giorni nella Colonia Penale
non uno scorcio mi riporta il chiaro

solo fogge fittili scombinate dal freddo
riverberate d’amore familiare
il vento a malapena sincero che soffia
nelle stanze aperte e calde
occlude questi giorni quasi protetti
da ribaldi voli di parole

 

My home is a fortress

socchiudi le ciglia nel bacio
astratto che cogli escoriato
senza stendardi
cieli a sbalzo
in un foco medicale divampano
fanno corona ai morbidi umori

 

et jouir de son destin!

osservo un dorso di sambuco
e nella nebbia     mi perdo

regredendo verso un plagato orizzonte
grigio e botanico       fuori le mura
un pensiero che vuole           andare
ogni ciocca serafica unitamente saluta

[…]

[in Steve 13, giugno 1995, pp. 17-8]

 

 

CESARE GREPPI
Omaggio

Era già alta ed era
su per l’aperta scala
la prima e l’unica
le braccia come foglie
la mai imitata
nel suo passo.

Carico è il giorno,
familiare l’erboso suo dorso…

*

A confonderci che nessuno giochi
quei giochi, ma chiamaci,
a piombare senza fiato,
a gocciolare

Il nostro far tesoro!
dove passava
la mollemente ornata,
la splendida acqua,
l’acqua mirabile!

*

Molto oro radevano
colombe e ora
bella bruma passeri.
Invano non è
moltiplicare voli
per questi fondi.
Insieme con gli improvvisi
belli di parole
bambini che spiano.

[in Steve 12, febbraio 1994, p. 76]

 

 

WALTER LODDI
(tre tempi della scuola)

T.1

“Se tu prendi dieci banane…”
spiegava Franco stralunato.
Noi ridevamo del suo
isterismo
e nulla capivamo
del capitalismo…

T.2

Ou monon, allà kai
ritornellava il musicista
istrione…
era la sua
traduzione, la mimesi
più vera dei classici
così anabolizzati…

T.3

Soprattutto s’amava il sole
le dolci feluche entrare
dalla fresca tintura delle veneziane…

[in Steve 12, febbraio 1994, p. 72]

 

 

ALBERTO CAPPI
Poesie

sfarina la messe del cielo
nel gelo
del mese che brina

la notte un suono beve
breve di neve

*

Elisabetta
batte alla tua porta
l’età perfetta
l’esatta morte

*

fai qualcosa per questo mondo
la rosa e l’arso dire
finisce il cauto resto
e lauto è il mai

[in Steve 12, febbraio 1994, p. 57]

 

 

SILVIO RAMAT
(inchiostri)

Che inchiostri caldi, al decollo!
Anche la penna più ignara,
con quelli, farebbe miracoli.
Ma ora, un blu marmorizzato.
Marmorizzate le ampolle
col pieno di succo d’acero,
dolce spirito di bandiera
portato via inutilmente!
E sotto, i mari biancheggiano.
Urlano, forse. Ma i cieli,
i cieli daranno una mano,
che chi fugge i paralleli
non incappi nel meridiano?

(7.V.91)

[in STEVE 11, giugno 1992, p. 41]

 

 

VIVIAN LAMARQUE
Altre poesie dando del lei

Sonnambulina l’amavo
leggermente stordita
dai giorni e dalle notti
della vita

Cercavo la giusta matita
per fare in Suo onore un ghirigoro
gli occhi mi brillavano
come a un cercatore d’oro

Come una mamma al suo bambino
il ginocchio ferito bacia
e il male subito va via
così io a Lei gli occhi stanchi…

Spaesata mi voltavo
farse dall’altra parte
del lenzuolo
avrei trovato Lei
rovente e gelido
spinato come un filo
da non toccare mai.

Oh faremo anche noi
un viaggio insieme un girono
valigie leggere
per il nostro viaggio nell’aria
nessuna prenotazione necessaria

[in STEVE 10, aprile 1991, p. 36]

 

 

LUCETTA FRISA
da “Goyescas”

3

Vieni a vedere questo foglio farsi ritratto
e noi che leggiamo senza capire
chiamando luce questi segni difficili
che dicono ragioni.
Vieni a vederci interrogare
l’occhio smarrito perché il foglio è bianco
e non sa nulla del nulla
e chi l’ha scritto è cieco come noi.
Vieni a vederci sognare mentre ci uccidono.
Il volo è basso; non riusciamo a toccare
l’alta città uguale a questa
che si schianta senza svegliarci.

4

Chi entrerà vedendo i nostri corpi
– illeggibili –
se qualcosa eravamo
se di qualcosa abbiamo parlato?

Perché non ci fu che il desiderio del desiderio
nel sudore del sonno senza figura.
Ci ha ingannato il crepuscolo
con le sue porte socchiuse
le piogge l’incertezza.
Ma la tristezza è durare
nella fatica del buio
che non ha vento e morte.
Non turbateci.
Non spaccate l’inferno col lampo.

[…]

[in STEVE 10, aprile 1991, pp. 29-30]

 

 

MARIA LUISA VEZZALI
da “Eleusi marina”

7

Quando l’estate tempra
gli odori caldi del mirto
e nelle pianure
s’aggira la nebbia
della terra,
non c’è ragione,
non c’è senno.
Rapide, uccelli dopo la messa
traghettano via la volontà dalle piazze.
Passano le piogge del sonno
– un sapore vagamente dolciastro –
via oltre i profili pigri dei filari.

Lambiscono l’aria deserta
ed i rintocchi entrano nel letargo.
Non c’è senno se non in te:
fuori la roccia è appena
scalfita
e nelle piazze
sporadiche ombre si conservano
indecifrabili.

[…]

[in STEVE 8, maggio 1989, pp. 53-5]

 

 

VINCENZO GUARRACINO
Oltre Scilla

I

Questi laghi, lucciole
sfarinate sulle gote come baci
reticenti di dolcezze
che la sete sollecita al solstizio
per l’erta degli orti appari
nell’ipostasi del nuoto, vuota,
ampolla desiata, di rossori.

II

nel tempo delle cieche complessioni
oltre
il mentale rigoglio della carne
tanto
sfumi (“dove tocchino le sponde…”) come
(“dove portino le strade…”), e
opaca si disegna la distanza
nel teatro della favola più alta
(“dietro gli olmi, quattro laghi, in
corona”), ove, muta, la Parca si dirama
per crudeli apparizioni

III

fragile esca il tuo riso quasi
esali sull’acqua le ore e dell’acqua
ti segni (“oscilla…”) di scaglie, se
affiora
la mia anamnesi in ordine, in tenero
vortice, oltre
l’oscura ascendenza di odori, nell’intimo
manto del tuo
inferiore inverno lunare

[…]

[in STEVE 7, aprile 1988, p. 55]

 

 

ELIO GRASSO
da: “L’ultimo giorno possibile”

I.

Libera la materia e tempera,
con un salto di piuma,
la parte più studiata
sotto queste egida virtuale.
Che un diverso stampo d’aria
crei un vortice sulla stella,
preziosa nel predominio.
Al varco delle fonti dorate
lo stile del tessuto ruoti
in annunci d’angelo apparente,
più tenue d’una misura.
Nella raccolta delle polveri
volteremo pagine di gloria,
uniche e per tutti diffuse.

III.

Compatibile alla storia giunge
dove l’ago annuncia un fendente.
Sopra un vulcano e nei fumi
tutte le figure piegano la notte.
L’aria dà una memoria più nobile
agli amori dalle doppie ali,
l’aria è un semplice livello
del corpo che non rinuncia.
Dopo il tocco i capelli spargono
mille lucciole sull’occupato monte
e l’alba ritorna più fredda.
Le piume tremano senza capire
se l’oro sciama per sua natura
o per l’inedita morte svelata.

[…]

[in STEVE 7, aprile 1988, pp. 57-60]

 

 

BIANCA GARAVELLI
da: “Lettere dai mesi finiti”

Noi siamo protetti dalla luce
nasciamo proprio adesso
forse non è una decisione
dello zodiaco
ma sono questi i giorni
dell’acqua e dei poeti.
Ora dall’interno
di questo cosmo ridotto
c’è un panorama su tutto
ma da fuori la luce impedisce
che viste non volute
disturbino il nostro sonno.

Non è come dai fiori
che viene questo profumo
e i petali riportano a se stessi.
l’invito all’ospitalità
non è mai negato prima
che dai sassi portati nell’aria.

Che cosa c’è per voi
e per gli occhi nei quali
a lungo vi siete guardati?
Veramente la vostra luce esiste.
Non avete bisogno di trucchi
non c’è nemmeno
una voce che possa negarvi.
Hai visto, ieri accanto
a lei non c’era modo
di spegnerti.
Perché la paura
ha scelto proprio
quest’anno per morire?

[…]

[in Steve 5, febbraio 1986, pp. 36-7]

 

 

MARIO MORONI
In apertura della storia

sulla linea continua del villaggio
all’entrata del paese degli alberi
invadete al primo gesto le regioni di neve
perché in apertura della storia le mani
descrivono brevi gesti e piccoli vetri
chiusi sull’altura chiamati al passaggio
descrivete e risalite fino a vedere
ecco: senza voce non rimane niente
in alto in basso nei limiti della stanza
adesso come allora non c’è niente
per cui l’occhio si apra lentamente
perché in apertura della storia gli occhi
descrivono percorsi ripetuti altre volte
si volgono fino a vedere le case
i confini, così descrivete le cose
finché l’occhio non sembri arrivare
per pensarli senza titoli e senza luci
perché in apertura della storia si descrivono
le scene già viste già aspettate
per immaginare gli occhi in un’altra direzione
in cui si aprono e si chiudono i luoghi
fino ai nascondigli, alle voci riprese nel tempo
con i corpi che tornano

ecco: senza voce non rimane niente
questo accade salendo a coprire i silenzi
forme immaginate o dette perché lo sapete:
in apertura della storia tutto è ancora
senza nome, senza volto con cui confermare
che ci sono minime tracce di lotta
schiume di giallo e di sangue
in ogni luogo all’inizio e più giù
in apertura della storia è la voce che passa
e disegna le parti, le più necessarie
descrivete la scena: più buia e ripresa
per dare odore all’ingresso
gesti sparsi e altre usanze
perché senza voce non rimane niente
a contatto con questo confine

(ottobre 1982)

[in Steve 4, gennaio 1985, pp. 48-9]

 

 

NINO MAJELLARO
Mitologie dell’albero

1

Radici scolpiscono la mente
frugando la memoria.
Astri
ricadono come inizi e profili
dove la foglia ha nomi
di differenze.
Da una stagione all’altra
non torna che il gelo del prato.
Anche l’erba si fa superficie
sull’immobile tavolato.

7

Sul foglio un albero vive
il soffio di una traccia.
La mente progetta
segni d’apparenza.
Storia di mutamenti vegetali
e memoria di sabbie.
Scrittura dei passaggi di ieri.

12

La scrivania dei rami.
E le mie pagine.
Di ciò che comincio.
Di ciò che risalgo.

Di ciò che è muto.
Del giorno e di un giorno.

Dell’occhio che mi entra.
Del punto che non ha volo.

Le parole.
Foglie a battere il fianco.
Mi imita l’uomo.
Sono un albero.

(aprile 1983)

[in Steve 3, novembre 1983, pp. 11 – 15]

 

 

ROBERTO SANESI
da “Paolo Diacono”

Per entro nel profondo, con viridi acque.
Fino a che in te primavera. Fino a quando l’alba.
Svolavano ombre cilestri.
Innumerevoli specie traversano il mondo fugaci.
Quivi venimmo insieme a rescontrarlo.
Per la sassaia diserta, per aspri cespugli
in laude Larii laci, la fede ancorata alla sponda.
E gravitava il piede
verso le luci al pianoro dell’alba, giostravano
nel rotolio delle pietre le lingue
dei merli ad matutinum, vagando riflessi lacustri
negli occhi. Da luogo sereno. Nel canto arrochito
di lago-montagna distante sull’acque
si sbrezzano i bianchi dell’onde, si stanano
sillabe che sopportano la morte.
Nulla erat violentia. Nemo spoliabat. Unusquisque
quo libebat securus sine timore pergebat.
Erano allora con me Peredeo, Clifone e Teodoro.
La polvere sui sandali, il chiaro cappello, il bastone
di frassino leggero inverso all’ombre. Scendeva
fra le selve d’ulivi il vocitare assiduo
dalle piume irrorate di rugiada, quel canto che crepita
secco negli orti, precipita, aleggia, si espande
verso la cima il quick, tii, tii, ke, qui, qui, tuit
di tutti che si affollano, aligeri insani. Nel sole
disfanno la trama i più rochi, nel becco
posseggono artiglia di pianto

[…]

[in STEVE 2, 1982, p. 30]

 

 

GIULIANO MESA
Before morning you shall be here

adesso non parlavi
adesso mentre cadevi sul fianco
gualcivi la carta sulla parete
le unghie graffiavano la calce
con la bocca piena di saliva
chiudendo e riaprendo la bocca
tutte le piccole scosse che ti avvolgono
adesso con tutte le dita i contorni le biacche
l’emulsione si compie
l’unguento sulle superfici dilavate dei vetri
adesso si sente il vagito l’attrito
si annusa l’odore del corpo che si sfrega con l’aria
e poi scenderà un’altra notte
per gli errori per i rumori compiuti
e si può aspettare per avere ancora
per dire “nel prossimo mattino – dicevi –
nel prossimo giorno

prima tu apri lentamente le braccia
adesso sospendi il tremore appendi la luna di carta
adesso occorre ripetere “il cielo poi la luce del cielo
la nuvola il tuono il tuo mattino inoltrato”
e così se ripeti e rimordi
nel pulviscolo fioccoso che deterge questa sera quest’impeto
poiché si continua ad avere ad aggiungere
abbi cura di usare la colla per mescolare il fiato al tepore
le parole molto perdute le sere molto lontane

lontano lontano
anche dopo aver riscaldato la stanza
dopo aver chiuso porte e finestre e cucinato le verdure migliori

da lontano si avvicinano i suoni
tu raccogli creme pomate e i taccuini sdruciti
mentre l’attesa finisce

(15 gennaio – 23 aprile 1982)

[in STEVE n. 2, 1982, pp. 13-15]

 

CARLO ALBERTO SITTA
Atto di nascita

Adesso lasciami scrivere. Per piacere.
Lascia che spieghi come si fa un falò,
convinto che questa sera non posso
restare e che tu risplendi per altri
fini. Ho passato le figure costiere
con suono di dadi e sintomi vertiginosi.
Ma non ancora convinto, non disanimato
del tutto dal precipitare dei modi
dove mi sono trovato d’accordo con te.
C’è luce abbastanza per i denti nudi
e concordi, prima che inizi lo sguardo
di terra che resta lievemente ultimo
nella forma della tua voce. Guarda
come riesce e non riesce quest’atto
d’accusa a forza di tiepide incisioni.
È la pelle che esige una diversa
innocenza, che sta poveramente tesa,
splendente, in una precisa emozione.
Per andarci sopra a morire questo è
il percorso, il cratere, e le alghe
allacciate all’ossigeno, la chiara
irrorata appartenenza, cocente da
cambiare colore. Include la nostalgia,
bosco e ciliegi, le linee dove dormi
e cammini. Ma di che radice incolore
è l’acqua irrigata dal polline, passo
su passo, accartocciata nella stiva,
in una diversità gradualmente spiegata,
fioccosa, odore del fiore acconciato,
presunto nel venire al mondo. Un misto
di amore e di spighe, rapidamente,
senza respiro, a valle di questa notte.
E sento che ora fa male capire la notte,
sono fuori anch’io dal mio sguardo. Mi
rivedo lo scatto del sole che isola
la porpora in posa, una prova per te
nel centro casuale del mondo. Io resto
sfocato dove tu non pensavi che fossi,
incoerente, abbracciato a sillabe
oblique. Ma ora, fra i tanti milioni
di lettere che potrei scriverti, scelgo
questa. Ora può veramente accadere che
tu mi legga. Questa non è la recita
della mia eccitazione adescata, ma il
sapore congiunto dei giunchi nell’aria
inerte e senziente attraversata da lame.
Ho solo dovuto addolcirmi l’ovale chiuso
di quello stagno, immaginarlo a colori,
farlo da me coi pezzi del tuo disamore.
Stringimi, non c’è posto per due, stare
male basta appena al mio corpo. In piedi,
come gli altri, non si sente più nulla.

(26 maggio 1980)

[In STEVE 1, aprile 1981, pp. 30-1]